An evening with Steven Wilson
Orpheum Theatre, 24 aprile 2016, Graz
Ho sempre amato i concerti, l’attesa, le luci che si abbassano, le note che iniziano a coinvolgerti.
Fa parte delle mie passioni la musica, quella suonata dal vivo, quella che ti prende dentro, ti fa dimenticare tutto, ti fa sognare.
E allora perché non approfittare di un giorno di festa per andare in Austria e godersi il concerto di questo personaggio favoloso.
Steven Wilson, sconosciuto alle grandi masse ma per gli amanti del rock e del progressive un’icona.
Ancora oggi considerato un enfant prodige anche se ha più di quaranta anni, è l’erede di quell’approccio alla musica, come forma di arte e di catarsi, di band del passato come King Crimson e Pink Floyd.
Dopo avere suonato per anni con il progetto Porcupine Tree e con il tenebroso Aviv Geffen con i Blackfield, da qualche anno Steven si è concentrato di più sulla sua carriera solista.
Fantastico polistrumentista, geniale nelle sonorità, si circonda di musicisti alla sua altezza che in quasi tre ore di concerto non sbagliano una nota o un attacco e ridono e scherzano con lui per tutto il tempo.
È la quarta volta che lo vedo in concerto, e non mi sarei aspettata di ridere così tanto.
Contro ogni aspettativa, soprattutto rispetto alle performance del passato, ha parlato molto tra una canzone e l’altra, pendendo in giro sé stesso e l’etichetta di “noioso miserabile” che gli viene affibbiata perché le sue canzoni sono spesso tristi, depresse e affrontano temi difficili.
La spiegazione ce la dà lui stesso: “ogni artista che sia musicista, un regista ma anche ognuno di noi ha un parte oscura, triste e depressa dentro di sé. Ogni artista fa un lavoro quasi catartico per tirarla fuori e semplicemente regalarla al pubblico che lo segue…”
In una platea gremita di ragazzi giovani e meno, e di molte, moltissime ragazze, la prima parte del concerto è dedicata all’ultimo album “Hand cannot erase”, ogni canzone accompagnata dalle bellissime immagini dei video collegati.
La seconda parte dedicata invece ai pezzi più vecchi, qualcosa dei Porcupine Tree, ma più che altro della sua carriera solista, il tutto intervallato dal suo continuo interagire con il pubblico tanto che ad un certo punto fa ripartire una canzone perché si dimentica di iniziare a cantare.
Una voce limpida, stupenda e calda, soprattutto nel commosso tributo a David Bowie con la canzone dei Porcupine Tree “Lazarus” tratta dall’album Deadwing.
E poi la confessione: “quando avevo 13 anni il mio cantante preferito era Prince, cavolo era così sexy e ballava in modo straordinario, non che non mi piacessero i geni del rock, anzi,ma erano completamente “Unsexuals” e io non volevo essere come loro, volevo essere come Prince”.
E il suo tributo a questo immenso artista arriva con la memorabile “Sign Of the Time” in cui basso e chitarre quasi urlano di rabbia.
Un concerto favoloso che si conclude con applausi incessanti, inchini infiniti e una certezza nel mio cuore.
È valsa la strada, il freddo e la fatica, è valso tutto, perché la musica ti arricchisce sempre.
Where the words Fails, Music Speak”
“Quando le parole falliscono, parla la musica”